Intervista con La Stampa
Intervista con Andrea Enria, Presidente del Consiglio di vigilanza della BCE, pubblicata il 1 Maggio 2019, realizzata da Alessandro Barbera
Enria, lei ha sempre creduto nel progetto europeo. Però oggi stanno venendo a galla i problemi. Penso all’applicazione del principio del “bail-in”, che impone ad azionisti ed obbligazionisti delle banche di pagare il conto in caso di fallimento. Pensa ancora sia stata una buona idea?
Quel principio era e resta corretto. Ricordo sempre cosa spinse ad introdurlo: durante la crisi, mentre c’erano Paesi che chiedevano programmi europei per evitare il fallimento delle loro banche, queste ultime continuavano a pagare interessi ai propri obbligazionisti subordinati. E’ giusto che gli investitori privati si facciano carico per primi dei costi di un’eventuale crisi, che i depositanti vengano protetti e che si riduca il più possibile la necessità di intervento pubblico.
Eppure in molti casi le crisi hanno provocato danni più gravi di un salvataggio pubblico. Non è così?
Per applicare con efficacia il principio c’è bisogno di tempo. E’ necessario che le banche abbiano emesso un ammontare sufficiente di strumenti finanziari in grado di assorbire le perdite, e soprattutto che quegli strumenti siano nelle mani giuste. Non dovrebbero comprarli altre banche – perché questo può provocare un contagio - e nemmeno piccoli investitori che non sono in grado di apprezzarne la rischiosità: ora c’è una norma che permette di richiedere tagli superiori ai cinquantamila euro per alcuni tipi di obbligazioni. Però bisogna chiarire un punto: l’unico caso di risoluzione bancaria con le regole della direttiva europea è quello del Banco Popular in Spagna. I problemi più grossi sono emersi dalle liquidazioni delle banche medie e piccole che continuano a essere gestite a livello nazionale.
Facciamo un esempio concreto: la crisi delle due ex popolari venete. Sono andate in liquidazione con danno per l’economia, ma il salvataggio è comunque costato caro al contribuente. Come mai?
Possiamo imparare dal sistema statunitense, che è riuscito a liquidare e fare uscire dal mercato un numero elevato di banche senza conseguenze né per i depositanti né per il contribuente. Lì è possibile per le autorità pubbliche prendere il controllo di banche in crisi, gestire il processo di liquidazione in maniera flessibile, ad esempio vendendo attività e passività al migliore offerente, spesso una banca che proviene da un altro Stato. Attenzione però: anche oltreoceano gli investitori sono soggetti a perdite. Pensare che nessuno ci rimetta in un fallimento bancario è un’illusione. Procedure di liquidazione credibili e flessibili possono minimizzare l’impatto per i creditori ed evitare di coinvolgere i contribuenti.
La sentenza della Corte di giustizia sul caso della Cassa di Teramo ha anche confermato il fatto che talvolta la Commissione europea si è mostrata troppo rigida. In quel caso chiamò aiuto di Stato un intervento – quello delle altre banche – che aiuto di Stato non era. Cosa risponde?
La sentenza della Corte di giustizia apre spazi a interventi degli schemi di garanzia dei depositi per favorire la liquidazione ordinata delle banche. Credo che questo sia utile. Ma regole e pratiche rimangono molto diverse tra paesi e possono richiedere una valutazione di compatibilità con le norme europee sugli aiuti di Stato. Bisognerebbe sviluppare criteri comuni – e quindi non soggetti alla disciplina degli aiuti di Stato - per favorire la ristrutturazione e la liquidazione di banche in crisi. Due anni fa proposi uno strumento europeo per lo smaltimento dei cosiddetti crediti deteriorati. La stessa cosa andrebbe fatta con le liquidazioni bancarie: a gestirle dovrebbe essere l’autorità di risoluzione europea. Ci dovrebbero essere regole comuni e un meccanismo europeo per la liquidazione delle banche. Si eviterebbero molti dei problemi di oggi.
Insomma, se qualcuno dice che l’Europa ha troppi poteri ed è causa del problema, lei risponde che ne ha troppo pochi e che invece può essere la soluzione.
Le sembrerà strano, ma è così.
La fusione fra Commerzbank e Deutsche Bank è archiviata. Eppure di fusioni in Europa ce ne sarebbe bisogno. Se si somma il valore in Borsa delle prime dieci banche dell’area euro non valgono quelle della più grande banca americana. Come è possibile?
La redditività delle banche europee rimane bassa, in media al di sotto del costo del capitale e le valutazioni sul mercato sono ben al di sotto dei valori contabili: in queste condizioni non è facile attirare investitori. Eppure anche in Europa alcune banche vanno meglio di altre. Sono quelle che sono riuscite ad abbassare i costi, investire in nuove tecnologie, pulire rapidamente i bilanci: noi spingiamo in questa direzione. Bisogna riconoscere, però che ci sono anche degli ostacoli strutturali: poche banche sono uscite dal mercato, rimane un problema di capacità in eccesso che ostacola la ripresa della redditività. Inoltre, i mercati rimangono segmentati lungo linee nazionali, e questa carenza di integrazione danneggia la ricerca dell’efficienza. Un processo di consolidamento sarebbe utile.
Dunque c’è bisogno di fusioni fra banche di diversi Paesi?
Non è compito nostro stabilire cosa debba avvenire. In alcuni casi le sinergie sono più elevate dove c’è sovrapposizione della rete di distribuzione. Ma sarebbe importante rimuovere gli ostacoli alle fusioni transfrontaliere. Un consolidamento fra soggetti di più Paesi aumenta la diversificazione dei rischi.
Negli ultimi mesi lo spread sui titoli pubblici italiani è cresciuto oltre la soglia di sicurezza, ed è riemerso il rischio che le banche – che di titoli pubblici ne posseggono molti – vengano travolte dai problemi del debito pubblico. Vede il rischio di un nuovo 2011?
L’Unione bancaria è stata un successo, ha rafforzato i patrimoni delle banche, ridotto le attività deteriorate, e questo ha attenuato il problema del ciclo perverso fra banche e stati nazionali. Detto questo, non è ancora riuscita a interrompere del tutto questa connessione, proprio per il motivo che citavo poco fa: i sistemi restano segmentati nei confini nazionali, e a differenza degli Stati Uniti uno shock che colpisce un singolo Paese non è assorbito grazie a banche che operano in altri Paesi, anzi: il sistema bancario amplifica lo shock. Per questo sarebbero utili fusioni fra banche di Paesi diversi.
Sarebbe utile anche un limite al possesso di titoli pubblici, come chiede la Germania?
Sono contrario all’applicazione di un limite rigido. Invece di risolvere il problema, avrebbe effetti destabilizzanti. Ciò non toglie che dei rischi esistano, soprattutto quando l’esposizione è molto concentrata: ci sono banche che hanno titoli pubblici per un ammontare che è sette o otto volte il patrimonio e che andrebbero incentivate a diversificare il rischio. Un altro elemento utile potrebbe essere una contabilizzazione più stabile e più ampia dei portafogli di titoli pubblici al valore di mercato: dopo tutto, sono attività liquide che le banche devono essere pronte a cedere sul mercato in caso di stress, come previsto dagli standard internazionali e dalle regole europee.
E’ vero che la situazione dei crediti deteriorati delle banche italiane è migliorata notevolmente?
E’ così. Nel 2018 l’ammontare lordo dei cosiddetti “non performing loans” si è ridotto del 28 per cento, e per la prima volta da molti anni il ratio è sceso sotto il dieci per cento, all’otto. Il progresso è notevole, anche se gli stock in alcune banche restano elevati. Poiché le previsioni di crescita economica sono peggiorate negli ultimi mesi non bisogna abbassare la guardia.
Il suo primo atto da presidente dell’Autorità di vigilanza è stato il commissariamento della Cassa di risparmio di Genova. Da allora sono passati quattro mesi, ma i problemi sono tutt’altro che risolti. Qual è la situazione? Ce la farà?
I commissari hanno preparato un piano industriale, cercato soluzioni per pulire i bilanci, e ricevuto offerte da investitori sia per l’acquisto di crediti deteriorati che di quote della banca. Il processo non è completato, ma attendo notizie entro maggio.
Quel primo atto ha fatto dire a molti che la sua gestione dell’Autorità sarà molto diversa da quella del suo precedessore, Danièle Nouy. E’ così?
Danièle Nouy ha fatto un grande lavoro per permettere alla nuova vigilanza europea di funzionare dal primo giorno ed essere credibile. Il mio compito sarà quello di guidare la nostra istituzione a uno stadio di maturità. Credo sarà importante aumentare il livello di trasparenza e prevedibilità delle nostre decisioni. Operiamo con un sistema di regole complesso e in caso di crisi gli investitori possono essere chiamati ad assorbire le perdite. Questo ci impone di spiegare bene il nostro modo di valutare lo stato di salute delle banche. Oggi ad esempio c’è un livello di trasparenza diverso da Paese a Paese delle nostre decisioni e raccomandazioni alle banche. Credo dovremmo sviluppare una politica comune e strategie di comunicazione uniformi, nel rispetto ovviamente delle regole di trasparenza che si applicano alle società quotate.
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