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Intervista a Il Sole 24 Ore

Intervista con Ignazio Angeloni, Membro del Consiglio di vigilanza della BCE, pubblicata il 26 giugno 2018, realizzata da Isabella Bufacchi

I mercati sono nuovamente spaventati dal rischio-Italia e sono tesi perché temono una guerra commerciale. Quanto tutto questo è dannoso per le banche?

Lo spread riflette il rischio paese, non solo quello dello stato come emittente di titoli pubblici. L’aumento dello spread colpisce le banche aumentando i costi della raccolta e, in parte, consumando capitale che è necessario alle banche per erogare credito all’economia. Il rischio di una stretta sul credito è particolarmente insidioso in questo momento perché interviene in una fase in cui la ripresa dell’economia è già minacciata da altri fattori di origine globale (i dazi di Trump e le loro ripercussioni in altri paesi). Le turbolenze vanno evitate misurando le dichiarazioni e soprattutto mettendo in atto politiche che producano stabilità e fiducia. Evitando passi più lunghi della gamba, come ha detto il governatore Visco. Per contro, va detto con forza che le banche europee e italiane sono oggi solide, più capitalizzate rispetto a prima della crisi, erogano più credito e hanno meno crediti deteriorati in bilancio.

C’è chi continua a instillare dubbi sull’adesione dell’Italia all’euro...

Abbiamo assistito, soprattutto negli ultimi tempi, a tentativi di screditare gran parte di quello che si è fatto negli ultimi vent’anni per costruire i fondamenti dell’Unione monetaria e dell’Unione europea. Una volta realizzati importanti progressi, ci si tende a dimenticare dei vantaggi che hanno portato. Ma è un atteggiamento pericoloso: chi ha responsabilità e chi orienta l’opinione pubblica dovrebbe incoraggiare scelte lungimiranti. Dobbiamo sforzarci tutti di spiegare meglio queste scelte. L’euro ha già portato grandi vantaggi all’Italia; ancor di più, porta opportunità che il paese è stato finora solo in parte in grado di cogliere ma che rimangono a portata di mano.

I paesi Europei sembrano frammentati e incapaci di affrontare in modo unitario i grandi temi del momento. È una crisi irreversibile?

Le più importanti sfide del momento sono di natura geopolitica – si pensi alla questione del commercio internazionale e delle migrazioni. A ben vedere, esse offrono anche all’Europa l’opportunità di mostrarsi all’altezza delle sue responsabilità globali, di dimostrare che il suo modello istituzionale, sociale e politico è in grado di rispondere a quelle sfide. Potrebbe anche rivelarsi un’occasione storica per l’intero continente. Si tratta di sfide che non possiamo evitare e che dobbiamo affrontare a viso aperto e uniti. Solo un’Europa unita può promuovere al meglio gli interessi di ogni paese; la stessa Germania, che non ha eguali in Europa per dimensione e forza economica, si rende conto di non poter tenere in mano da sola il proprio destino. Questo vale in modo particolare per l’Italia, un grande paese che deve però ancora superare molte delle sue debolezze strutturali. L’Europa è l’ambito che ci si offre per decidere insieme il destino comune. Facendo valere dimensione e diversità. Argomentando con forza se serve, puntando i piedi a volte, ma senza mai mettere in dubbio la casa comune. Al di fuori dell’Europa, saremmo in balìa delle scelte altrui, senza possibilità di influire. A fianco delle sfide geopolitiche ci sono poi le questioni interne all’Unione, che riguardano il suo sviluppo economico, politico e istituzionale, fra cui in primo luogo la riforma della zona euro e il completamento dell’unione bancaria. Sono questioni che è importante risolvere presto e in modo il più possibile stabile e convincente, anche per meglio rispondere alle sfide più impegnative che ci si pongono a livello globale.

Cosa si aspetta dal prossimo vertice dei capi di Stato e di Governo per quanto riguarda il futuro della zona dell’euro e dell’Unione bancaria?

Mi auguro prima di tutto che la presenza simultanea di due dossier, quello migratorio e quello che riguarda la zona euro e l’unione bancaria, non impedisca di prestare sufficiente attenzione a ciascuno di essi. Sono entrambi importanti, come ho appena detto. Su entrambi i punti, deve prevalere la consapevolezza da parte di tutti che solidarietà e responsabilità sono concetti che si rinforzano a vicenda. Vi sono segnali incoraggianti; la dichiarazione di Meseberg, per esempio, contiene elementi utili che riguardano l’euro e le banche. Elementi da discutere nel dettaglio, ma che vanno sostenuti nel complesso.

La proposta contenuta nell’accordo tra Emmanuel Macron e Angela Merkel sull’Unione bancaria però continua a menzionare “la sequenza”, prima la riduzione dei rischi poi la condivisione.

Il linguaggio della dichiarazione è sfumato su questo punto, e non poteva essere altrimenti, trattandosi di una questione controversa. Nell’accordo c’è anche un riferimento al “parallelismo” indicato da Mario Draghi, che nei giorni scorsi si è espresso in maniera positiva sull’accordo. In materia di banche, alla consistente riduzione dei rischi che sta avvenendo e che è già avvenuta, soprattutto dall’avvio della vigilanza unica a oggi, deve corrispondere ora un rafforzamento dei meccanismi di condivisione dei rischi.

Ma nell’accordo Francia/Germania il sistema europeo di garanzia unica dei depositi bancari (Edis) è rinviato. E’ finito nel cassetto definitivamente?

L’unione bancaria è operativa e funzionante, e ha già consentito di raggiungere ottimi risultati accrescendo la solidità del sistema. Ma è anche incompleta e per questo più fragile ed esposta a rischi di crisi. È carente il meccanismo di soluzione delle crisi, per l’assenza di un fondo europeo di risoluzione unico di dimensione adeguata. È carente anche la legislazione bancaria; basti pensare che gran parte di essa risale a quando l’unione bancaria non esisteva ancora. E manca, come lei ricorda, l’assicurazione unica sui depositi. Edis è importante e deve rimanere un obiettivo da perseguire, ma personalmente ritengo che sia meno urgente delle altre due cose che ho menzionato.

Possiamo allora anche fare a meno di Edis?

Nelle crisi bancarie l’assicurazione dei depositi interviene abbastanza raramente. Ed esistono comunque già sistemi di garanzie nazionali, in parte armonizzati; si tratta di combinarli, e ci sono vari modi per farlo. Per contro, il fondo di risoluzione è fondamentale per dare certezza e credibilità a tutto il meccanismo. E la legislazione è fondamentale, perché la vigilanza la usa tutti i giorni. Senza una legislazione adeguata (cioè omogenea in tutti i paesi dell’unione bancaria) la vigilanza è più debole, e con essa tutto il castello dell’unione bancaria. Detto questo, come ripeto, l’assicurazione unica dei depositi bancari è importante e deve rimanere un obiettivo.

Cosa manca nella legislazione bancaria europea?

Non c’è coerenza in molte delle regole, per esempio sui limiti ai grandi fidi, sulle filiazioni, sui movimenti di capitale e di liquidità transfrontalieri. E questo è un freno non solo al mercato unico, ma anche alle aggregazioni tra istituti bancari in Stati diversi perché non c’è ottimizzazione dei costi e si limitano le sinergie. Concessione e ritiro della licenza bancaria, uno dei compiti fondamentali della vigilanza unica, sono ancora sottoposti a leggi nazionali. Anche i giudizi della vigilanza sull’adeguatezza dei manager e degli amministratori bancari sono regolati a livello nazionale e applicati in maniera diversa tra Stati. Molte delle regole riflettono ancora la realtà precedente all’unione bancaria. C’è una revisione legislativa in corso, ma che purtroppo non fa molti passi avanti; il Parlamento Europeo la esaminerà nella seconda parte di quest’anno e spero possa aiutare a migliorarla.

In un documento dei ministeri delle Finanze francese e tedesco appaiono per la prima volta anche due numeri come obiettivi per la riduzione dello stock dei crediti deteriorati lordi e netti, 5% e 2,5%. Questo può creare problemi alle banche italiane?

L’Italia ha fatto grandissimi progressi nella riduzione dei NPLs. Per le banche significative, da un picco attorno al 17% il rapporto NPLs lordi rispetto agli impieghi è sceso all’11,1% alla fine del 2017. Solo nello scorso anno, per le grandi banche italiane (quelle che la BCE vigila direttamente) lo stock è sceso da 230 a 186 miliardi. L’azione decisa intrapresa della vigilanza BCE, con il crescente sostegno delle autorità nazionali e con grande collaborazione e sinergia delle banche, sta dando i frutti sperati. Ma la media dell’euro area è al 4,9%, e questo indica che l’azione di riduzione non si è ancora completata. Significative discrepanze si rilevano anche nei crediti deteriorati al netto degli accantonamenti. L’importante è che si tenga conto delle situazioni specifiche.

In quanto tempo si dovranno raggiungere quegli obiettivi?

Vedremo quali saranno le decisioni finali. In ogni caso, la riduzione dei livelli di crediti deteriorati deve proseguire indipendentemente da quanto verrà deciso. La vigilanza indicherà il percorso che ritiene appropriato intraprendere per favorire un’ulteriore riduzione dello stock dei crediti deteriorati per le banche di maggiori dimensioni.

Ritiene che continuerà ad applicare un approccio caso per caso?

Si, è sempre stato così. C’è stato un grande equivoco in passato. Noi abbiamo comunicato al mercato un’aspettativa di vigilanza sulle coperture dei flussi di crediti deteriorati futuri. L’aspettativa è un punto iniziale di riferimento per il dialogo tra la vigilanza e i vertici operativi delle banche. Una volta chiarite le aspettative, se subentrano delle situazioni particolari di singole banche, ne teniamo conto. Per quanto riguarda lo stock, pur procedendo con grande cautela è necessario continuare a promuovere il processo di riduzione che abbiamo intrapreso. Nel lungo periodo, vi sarà comunque una convergenza naturale tra il regime applicato ai flussi e quello sulle consistenze.

La proposta franco-tedesca assegna al fondo salva-Stati Mes il compito di valutare la sostenibilità dei debiti pubblici; non menziona (ma potrebbe sottintendere) il tema spinoso della ristrutturazione dei debiti pubblici, e anche quello, altrettanto controverso, di limitare la detenzione di questi titoli da parte delle banche…

Il rischio sovrano penalizza tutte le banche del paese, non solo quelle maggiormente esposte a questo rischio. Questo fatto già in se suggerisce che la soluzione per attenuare il “circolo vizioso” fra rischi bancari e rischi sovrani non possa consistere esclusivamente, o principalmente, nel penalizzare la detenzione di titoli pubblici delle banche. Se poi tale penalizzazione fosse determinata in funzione del rischio espresso dal mercato (spread) o del rating, essa addirittura accentuerebbe l’instabilità invece di limitarla. Non escludo che si possa arrivare a introdurre, nel tempo, incentivi alla diversificazione del rischio di portafoglio anche nel comparto dei titoli di Stato. Ma ogni cambiamento dovrebbe essere graduale e coerente con gli orientamenti a livello internazionale (Comitato di Basilea). La via maestra è la riduzione dei rischi sovrani, attraverso politiche di bilancio sostenibili. Meccanismi di ristrutturazione del debito, soprattutto in forma semi-automatica, sono problematici perché aumentano il rischio sistemico.

La riforma delle BCC è uno passo importante per migliorare la redditività e la solidità dell’intero sistema bancario italiano ma è in bilico. Qual è il punto di vista del Meccanismo di vigilanza unico della Bce sulla riforma delle Bcc e più in generale sulla vigilanza europea estesa alle piccole banche?

La riforma delle BCC è stata voluta dall’Italia, che ha ravvisato necessità di consolidamento. La vigilanza europea ne ha preso atto, individuando elementi che potevano portare a una razionalizzazione del settore e a una maggiore solidità, nell’interesse dei depositanti e dei destinatari del credito. Già nel 2016 la BCE ha pubblicato un’opinione in materia, in cui si sottolineava, insieme agli elementi di indubbio vantaggio, il fatto che le maggiori responsabilità attribuite alla capogruppo comportavano la necessità di un rafforzamento della governance. La riforma non prevede il superamento della mutualità, anzi, può contribuire a difenderla. Abbiamo ricevuto richieste di autorizzazione da parte dei nuovi gruppi bancari e le stiamo valutando, conducendo le necessarie analisi. Va ribadito che la vigilanza europea non privilegia un modello di business rispetto ad altri: è interessata - anzi - è tenuta dal suo statuto a promuovere la solidità delle banche, il che vuol dire tutelare i risparmi.

In fatto di governance delle piccole e micro banche, emerge uno stock dei NPLs molto elevato. Cosa fare?

L’incidenza dei crediti deteriorati nel loro caso è superiore a quella dei grandi istituti; nella media dell’area euro è vero l’opposto. Possono esserci varie ragioni, ma in ogni caso è necessario mirare a procedure di concessione del credito sempre più efficaci. Pur nei diversi contesti operativi, gli standard di qualità devono essere gli stessi per tutto il sistema. I dati aggregati mostrano che il credito sta aumentando, per le grandi e per le medie e piccole banche, anche se cresce meno per gli istituti di credito di dimensione minore. Il credito delle piccole banche si rivolge in massima parte alle PMI, che sono fondamentali per l’economia europea e quella italiana in particolare. Per questa ragione la legislazione bancaria europea contiene diverse disposizioni che accordano ai prestiti al settore un trattamento favorevole. Il miglior contributo che la vigilanza, europea e nazionale, può dare allo sviluppo dell’economia, PMI incluse, è mantenere banche solide e trasparenti. Solo in questo modo le banche saranno in condizioni di sostenere i maggiori rischi specifici che sono insiti nel credito alle piccole imprese.

Un’altra stretta che appare in arrivo, e che riguarda per contro le grandi banche a rilevanza sistemica, è quella sulle esposizioni cosiddette di Level2 e Level3?

Stiamo approfondendo il modo in cui alcune grandi banche gestiscono questo tipo di rischio, con ispezioni. Ma contrariamente a quello che si pensa, il Level 2 e il Level 3 non sono solo posizioni speculative. In molti casi le banche si assumono i rischi per conto delle imprese. Spesso accade che le posizioni di rischio delle imprese non siano standardizzate e quindi anche la banca, quando si accolla il rischio per conto dell’impresa, debba operare sul mercato OTC che per sua natura tratta strumenti meno liquidi.

In merito alle misure Mrel e Tlac, i cosiddetti “bond cuscinetto” - la nuova categoria di obbligazioni soggette a bail-in e collocate tra i senior bond e i bond subordinati - quali sono i tempi? Non si rischia di imporre alle banche di medie dimensioni di emettere questi nuovi bond in tempi troppo stretti, aumentando il costo e lo spread? La recente turbolenza sui mercati e l’allargamento dello spread hanno colpito per primo il mercato dei bond subordinati bancari.

I “bond cuscinetto” (titoli obbligazionari che si prestano a essere convertiti in azioni o decurtati nel valore in caso di crisi della banca) sono il complemento delle nuove regole sul bail-in introdotte dopo la crisi. Non credo che i tempi richiesti per l’emissione di queste categorie di titoli saranno troppo stretti; la vigilanza BCE in particolare si sta adoperando, nel suo dialogo costante con il meccanismo di risoluzione unico, affinché le emissioni siano programmate in modo da essere compatibili con la capacità di assorbimento del mercato – anzi, dei mercati, perché si tratta in qualche misura ancora di mercati con una dimensione nazionale. Non solo questo, ma va anche fatta attenzione all’impatto sulla redditività delle banche, perché titoli subordinati sono in genere più costosi per l’emittente. Infine, cosa di grande importanza, va assicurato che questi titoli maggiormente rischiosi non siano venduti a investitori inconsapevoli; su questo vigileranno Consob e Banca d’Italia. La “vigilanza proattiva” promessa nei giorni scorsi da Mario Nava, nuovo presidente Consob, lascia ben sperare. La chiarezza va a vantaggio dei risparmiatori e in ultima analisi rafforza anche le banche.

L’Italia auspica una revisione del bail-in perché è una procedura di risoluzione bancaria che in alcuni casi rischia di colpire in maniera dura il risparmio dei privati, di quegli investitori che inconsapevolmente si sono esposti ad alti rischi: questo può avere effetti destabilizzanti anche sistemici e soprattutto mina la fiducia nelle banche dei correntisti. Ma fino a che punto è possibile ammorbidire l’implementazione del bail-in?

Il bail-in (in parole semplici, la condivisione in misura limitata dei rischi bancari da parte degli azionisti e dei creditori delle banche) è una regola nuova introdotta a livello globale dopo la crisi. È un buon principio, ma va applicato in maniera oculata. In assenza di esso, si espongono i contribuenti, che sono ancora più inconsapevoli e ancora meno responsabili di ciò che avviene alle banche. Occorrono prudenza e trasparenza. In Italia (ma anche in misura minore in altri paesi) titoli rischiosi emessi dalle banche sono stati acquistati da risparmiatori individuali. Molti di loro non hanno la necessaria informazione e forza patrimoniale per sopportarne i rischi. In alcuni casi i titoli sono stati venduti senza che le persone fossero consapevoli del rischio che assumevano, come invece le regole richiedono. Da questa situazione si esce muovendo in tre direzioni: primo, assicurandosi che titoli rischiosi (in primo luogo, obbligazioni subordinate) non vengano più venduti a risparmiatori individuali senza un’adeguata preparazione (parte della nuova direttiva Mifid 2 mira proprio a questo); secondo, incoraggiando le banche ad attuare operazioni di concambio volte a trasferire i titoli già in portafoglio presso investitori specializzati; non mi sembra però che questo stia accadendo, in Italia. Terzo, in casi particolari, esentando titoli dal bail-in, come prevedono le norme europee. L’articolo 44 (comma 3) della direttiva BRRD sul bail-in fa un lungo elenco delle situazioni speciali per le quali il bail-in non si applica, menzionando per esempio il rischio di contagio. Le esenzioni però devono essere di carattere eccezionale, per evitare che diventino un canale di elusione della legge. Su tutto questo l’EBA e dall’ESMA hanno pubblicato giorni fa un documento che contiene utili indicazioni.

Unicredit-SocGen oppure Deutsche-Commerzbank. Al di là dei recenti rumours di mercato, la vigilanza vede con favore le aggregazioni transfrontaliere? Non abbiamo anche in Europa bisogno di campioni bancari globali, per contrastare la concorrenza dei grandi player americani che tra l’altro saranno ulteriormente favoriti rispetto alle controparti europee, dalla deregulation negli Usa promessa da Donald Trump?

La vigilanza europea lavora per avere banche solide, con piani aziendali sostenibili nel tempo. E i requisiti variano anche in funzione della dimensione della banca. La fusione, ad esempio, di due banche medie da luogo a una banca grande, e la banca grande ha caratteristiche di rischio anche sistemico che, a parità di altri fattori, possono essere superiori alla semplice somma delle banche componenti. La vigilanza europea non è stata mai contraria alle fusioni transfrontaliere, ci mancherebbe altro. Sono d’accordo con lei che queste operazioni devono essere, e saranno, eventi normali in un’unione bancaria consolidata. Oggi paghiamo ancora i rischi residui della grande crisi, le cui ombre purtroppo si sono tornate a vedere negli ultimi giorni. E paghiamo anche le carenze, le incompletezze dell’unione bancaria, in particolare della legislazione, che in molti casi non consente ai gruppi cross-border di beneficiare della loro dimensione ed estensione geografica. Lavorare per il completamento dell’unione bancaria significa anche lavorare per rendere le fusioni fra istituti bancari di paesi diversi, laddove esse rispondono a sani criteri aziendali, più convenienti per le banche e più sicure per tutti.

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